Ormai è indiscutibile: nella climatologia di oggi i dati non servono più a nulla
20 maggio 2021
Non vi sono più dubbi sul fatto che la climatologia negli anni Duemila abbia conosciuto una trasformazione di grande rilevanza: da un ormai inutile positivismo è passata ad un efficacissimo dogmatismo. L’idea della “crisi climatica” (con tutto il debito corollario di eventi estremi nettamente cresciuti per entità e frequenza) va accettata acriticamente, a meno di non voler essere inseriti nel novero di quei trinariciuti negazionisti che, ostinandosi ad osservare i numeri, continuano a far presente l’inconsistenza di tante affermazioni.
Forse qualche lettore si porrà una domanda del tipo: «Ma allora ricostruire delle serie storiche di dati, fare su di esse un’analisi statistica e disegnare dei grafici sono operazioni ormai inutili?». Direi che possano essere cose sulle quali ancora qualcuno si diverte a lavorare, ma i cui risultati non influiscono affatto sul dibattito del cambiamento climatico, proprio perché dominato da un sano dogmatismo che rende tutto più rapido e immediato. In questa nota ne darò un esempio chiarissimo, derivante da un rapporto dell’ISPRA del 2014 intitolato “Focus su LE CITTÀ E LA SFIDA DEI CAMBIAMENTI CLIMATICI” (il rapporto – come gli altri documenti citati successivamente – sono tutti liberamente scaricabili dal web). Di seguito uno screenshot della copertina, nella quale si può osservare un'immancabile immagine di un'inondazione, perfetta per preparare il lettore alle solite affermazioni sulle piogge intense.
A pagina 135 vi troviamo il contributo “Clima, Salute e Benessere in città”, redatto da F. De Maio, L. Sinisi e J. Tuscano, tutte appartenenti all’ISPRA. Quanto riportato nel testo non lascia certo tranquilli, visto che prima si dice: «Le precipitazioni stanno progressivamente acquistando un carattere sempre più intenso (così dette “bombe d’acqua”) con una contemporanea diminuzione della piovosità media durante l’anno e questa tendenza presumibilmente continuerà nelle prossime decadi.», per poi aggiungere nelle conclusioni: «I cambiamenti climatici e l’aumento di frequenza degli eventi estremi osservati ed i futuri scenari condivisi hanno posto in discussione le costanti meteo-climatiche su cui si sono organizzati, stabilizzati e evoluti sia gli insediamenti urbani che i sistemi di prevenzione sanitaria, ambientale e territoriale, le tecnologie applicate alla sicurezza delle infrastrutture, l’edilizia residenziale e la pianificazione di attività socio-produttive strategiche come turismo e agricoltura.».
Tutte affermazioni che, come si conviene in ogni serio contesto scientifico, non sono certo campate per aria, ma appoggiate su solidi riscontri di altri studi. In questo caso è citato nel testo un ulteriore documento ISPRA, sempre del 2014: “(Desiato F. et al.) Gli Indicatori del clima in Italia nel 2013. ISPRA Rapporto 50/2014”. In esso è tracciato anche l’andamento del clima nel periodo 1961-2013, utilizzando le circa 900 stazioni ricadenti nell’archivio SCIA; come indicatori per valutare l’andamento dell’intensità delle precipitazioni e dei relativi eventi estremi, sono stati considerati: a) l’intensità giornaliera media, b) la precipitazione giornaliera massima (nell’anno e nelle singole stagioni), c) l’R95p, cioè la frazione di afflussi data dai giorni con pioggia non inferiore al 95° percentile. Cosa è scaturito dall’analisi? Che in Italia non è cambiato nulla; un esame dei grafici delle serie lo dimostra e infatti a pagina 55 gli Autori sintetizzano così: «Complessivamente, dall’analisi delle serie temporali di questi indici non emergono segnali netti di variazioni significative della frequenza e della intensità delle precipitazioni nell’ultimo mezzo secolo.».
In sostanza, onde rispettare i dogmi granitici della crisi climatica, si potrebbe dire che siamo in presenza di cambiamenti climatici drammatici, anche se inesistenti.
A pagina 171 si trova poi il contributo “Eventi estremi di precipitazione e criticità geologico-idrauliche nell’area urbana della Capitale”, redatto da M. Amanti, D. Berti, M. Lucarini, A. Troccoli, pure stavolta tutti appartenenti all’ISPRA. Correttamente gli Autori si inchinano subito ai dogmi del disastro incombente, scrivendo nell’introduzione: «Negli ultimi anni, il numero e la frequenza di eventi climatici estremi in grado di causare effetti catastrofici sembrano in costante aumento, cosicché termini quali “bomba d’acqua”, “flash flood”, “alluvione”, “stato di calamità”, “siccità”, “onda di calore africano” sono ormai divenuti d’uso comune. Tali manifestazioni rappresentano uno degli aspetti più eclatanti delle variazioni che il clima sta subendo a scala globale e tendono a provocare conseguenze significative in ambiente urbano, dove le naturali dinamiche ambientali e territoriali si sovrappongono alle modifiche introdotte dall’attività antropica, a volte con esiti disastrosi particolarmente evidenti.». Come per l’articolo prima discusso, le affermazioni fatte non sono certo casuali, ma si richiamano ai risultati di studi appropriati. In effetti, nella pagina seguente si legge: «Ad oggi, l’esatta portata dell’effetto serra antropogenico non è ancora prevedibile e controllabile, ma tuttavia questo potrebbe determinare o accentuare una serie di fenomeni, sia a scala globale che a scala nazionale, così come il trend di alcuni parametri, negli ultimi decenni, sembra ribadire (Fioravanti, 2014).». Il riferimento è ancora una volta a un documento ISPRA (Analisi statistica degli estremi di precipitazione in Italia) che si afferma presentare dei trend evidenti di incremento; ciò parrebbe un po’ curioso visti i risultati di quello di Desiato et al., 2014 ma forse siamo in una situazione del genere “il mondo è bello perché è vario?”. Purtroppo per gli Autori la risposta è: NO, non ci sono trend evidenti. Fioravanti, dopo aver condotto un’approfondita analisi delle serie dei massimi giornalieri per 33 stazioni distribuite sul nostro territorio, scrive infatti: «I risultati dell’analisi indicano che l’utilizzo di un modello GEV stazionario sia adeguato per descrivere le serie di dati qui in esame. In particolare, delle 33 serie di massimi annuali, solo 5 non risultano stazionarie sia per il test di Mann-Kendall che per il log likelihood ratio test: 4 stazioni del CentroNord e una per il Sud.».
Spiace ripetersi ma, sempre per mantenere la dovuta deferenza verso i dogmi granitici della crisi climatica, si potrebbe ribadire che siamo in presenza di cambiamenti climatici drammatici, confermati da trend evidenti (a parole), ma invero non esistenti (nella realtà della statistica).
Concludo rivolgendo una domanda all’ISPRA: «A quale fine fate degli studi sulle serie di dati, visto che i risultati che ne scaturiscono sono ignorati o del tutto travisati nei vostri stessi rapporti sui cambiamenti climatici?»